giovedì 15 ottobre 1998

Anche nell’agro di Pietracupa un complesso badiale? Il Monastero di S. Alessandro

‘Scoperta’ già da qualche anno, ed in maniera assai fortuita, dal curioso interesse culturale di Don Mario Colavita, attuale Parroco di Limosano, che ringraziamo per la segnalazione e per l’invito ad interpretarla, sta nell’Archivio Parrocchiale di Macchia Valfortore (collocata in un ‘posto’ caratterizzato dalla più assoluta casualità) una pergamena del XIV secolo, da poco re con ui-i intervento, che ne ha, però, ridotto la possibilità di una completa e corretta lettura.

Anche se è stato, almeno sino ad oggi, dimenticato (ma ignorati come quello ne esistono tantissimi negli archivi ‘privati’ ed ecclesiastici) da tutti gli organi ufficiali (competenti e, soprattutto, incompetenti), il documento, che, come assai di frequente accadeva un tempo, veniva adoperato (e da tale uso improprio gli derivò il conseguente deterioramento) per ‘copertina’ di qualche registro parrocchiale, riveste per lo studioso di cose molisane quel notevole interesse, di cui diremo qualche aspetto che ci è sembrato essenziale.

Perché permette di localizzare nell’agro di Pietracupa, e precisamente nella località Colle Sant’Alessandro, posta al confine con l’agro di Torella, una “Abbatia, seu Ecclesia S.ti Alexandri”. Tale complesso monastico è da inserire in quella fitta serie di strutture cenobitico-curtensi che ha caratterizzato per secoli il territorio della media valle del fiume Biferno e che andrebbe fatta oggetto di studi seri ed approfonditi per poter ridisegnare (con risultati diversi, ma sicuramente più vicini al vero, di quelli proposti dalla cultura ufficiale e di palazzo) la geografia sociale e religiosa, la mappa degli organismi produttivi ed i collegamenti stradali fissati sulle vie romane e che, poi, diedero origine a quei percorsi tratturali, lungo i quali quelle strutture si vennero a posizionare. Anch’esso, non diversamente dai tanti altri complessi abbaziali di quell’ambito territoriale, era sorto, così come dimostrerebbero i moltissimi rinvenimenti fatti nella zona da contadini (ma le Sovrintendenze dove sono?), su di una villa romana, la struttura produttiva del tardo impero. Nel rispetto, poi, dei dettami dell’osservanza benedettina (ora et labora) venne strutturandosi in curtis, la tipica organizzazione socio-produttiva dell’alto medioevo. E, come dimostra il prezioso documento, che reca la data del 26 aprile del 1370 (anno primo di pontificato di Papa Gregorio XI, il Pontefice <1370-1378>, che riportò, nel 1378, la Sede di S. Pietro da Avignone a Roma), mantenne una funzione di polo economico anche successivamente e sino all’epoca basso-medioevale.

Perché permette di avere una conferma, da riferire anche alle istituzioni dell’area molisana, della commistione, nella gestione dei rapporti di potere, tra le funzioni civili e quelle ecclesiastiche del dominus, che poteva indifferentemente essere tanto un laico, al quale venivano venduti anche compiti religiosi, quanto un esponente di quel Clero gaudente, rispetto alle condizioni della vita ‘normale’, nelle ricchezze, formato da preti, sia secolari che regolari, tra i quali la scandalosa convivenza more uxorio con donne era non l’eccezione, bensì la regola.

Ed, infine, perché, pur tra le mille difficoltà dovute alla cattiva conservazione della pergamena, che si presenta in molte parti assai sbiadita e poco interpretabiie, permette di ricostruire costumanze ed usi di una giornata di festa, tenutasi nell’ Abbatia S.ti Alexandri a conclusione di un importante accordo economico riguardante spettanze, diritti e competenze. Alla stipula parteciparono:

- il notarius, l’abbate Roberto di Saruntolo da Frosolone (abbas Robbertus de saruntulo de Frisolono);

- diversi “testes literati ed illiterati”;

- il nobile Roberto “de petracupa”, che è allo stesso tempo ‘signore (dominus)’ del “castrum petrecupe” e ‘padrone (patronus)’ della Chiesa di S. Alessandro;

- l’abbate Carlo da Tufo (Karolus de tufo), “abbate e Rettore (abbas et Rector)” della predetta Chiesa;

- l’ “uomo pubblico (publicus vir)” Signor Don Nicola, l’Arciprete della Chiesa di Pietracupa;

- il Vicario e Nunzio del Vescovo di Trivento (che, dopo la soppressione della Diocesi di Limosano, ha necessità di affermare la sua autorità), precedentemente incaricato con procura dallo stesso titolare della Sede Episcopale.

Non resta, per chiudere ed margine della ‘scoperta’, i cui meriti sono da attribuirsi ad un prete curioso e ad un suo amico che fa della ricerca solo per hobby, che una considerazione semplice semplice e senza nessuna pretesa. Non sarebbe, cioè, più produttivo che la CULTURA, anziché lucro di pochi eletti e raccomandati, che sono riusciti a ritagliarsi la loro area di privilegio burocratico nei palazzi sontuosi, foraggiati, all’insaputa di tanti, con progetti di nessuna utilità e finalizzati solo alla spartizione di denaro, diventasse dapprima la proposta e, poi, allargato a tutto il territorio, il lavoro di chi è capace di attualizzarla? Forse e, meglio, senza forse, non vi sarebbero più tanti inutili uffici che vivono solo del loro essere burocrazia, ma la rivitalizzazione dei piccoli centri abitati, intorno alla riscoperta della specifica identità storico-culturale di ciascuno di essi. Ma, per far ciò, occorre passione, lavoro ed un cambio di mentalità. E, soprattutto, di teste.


[da Vita Diocesana, quindicinale della diocesi di Campobasso, Anno I, n. 16 del 15 ottobre 1998]

sabato 19 settembre 1998

Limosano: società e geografia dopo l’anno mille

Mentre la regola benedettina (e, più di essa, abati e monaci), col trascorrere dei secoli, va perdendo quella parte di connotazione spirituale, rappresentata dalla preghiera (ora), per dedicare alla produzione ed alle attività economiche (labora) uno spazio sempre maggiore della vita nelle grandi strutture monastico-curtensi, si assiste alla riscoperta (ma non, o non ancora, all’affermazione) di una ‘socialità possibile’, che, favorita da una fase di esplosione demografica, diventa la causa motrice dei profondi cambiamenti, che sémpre di più assumono, a partire al più tardi dal primo secolo dopo il ‘mille’, il carattere della irreversibilità.

La lettura di alcuni documenti della Collectoria 61 (Benevent Civit.is & Ducatus Varia - 1132/1312) nell’Archivio Vaticano, riguardanti situazioni, fatti ed accadimenti nell’area limosanese, offre lo spunto e, soprattutto, gli elementi per una ricostruzione, con buona approssimazione al vero, di alcuni aspetti della geografia e, più importanti, della vita socio-economica di allora.

Cominciamo dagli aspetti geografico-fisici. Scomparse del tutto le aree paludose lungo il fiume, a dominare sul paesaggio restano, ancora discretamente diffuse, la macchia cespugliosa ed il bosco, che, nell’agro di Limosano, sarebbero da posizionare nelle attali contrade: Cese, Selva, Selvitella, Foresta, Macchie e Bosco Fiorano. Tali ampie zone di incolto si intervallano con le parti coltivate, che, estese intorno a piccoli ‘Casali’ (Covatta, Castelluccio di Limosano, Cascapera, Ferrara e la stessa S. Angelo Limosano) oppure a chiese rurali (S. Leonardo, S. Giusta, S. Giovanni della Serra, S. Vittorino e SS. Giovanni Battista ed Evangelista) gestite da quei monaci che, se talvolta e per scelta conducono vita eremitica, assai spesso sono veri e propri amministratori di patrimoni monastici non altrimenti controllabili, rientrano, comunque e sempre, nel disponibile delle grandi strutture monastico-curtensi. A quelle di esse, che in altro scritto abbiamo già visto essere particolarmente numerose nel territorio direttamente controllato da Limosano (S. Maria, S. Benedetto e S. Pietro nella Maccia bona, S. Illuminata a Pescio majore e S. Silvestro), vanno aggiunte, tutte alla sinistra del Biferno: S. Angelo in Altissimis a Colle S. Angelo tra Lucito e Civitacampomarano, S. Alessandro a Colle S. Alessandro tra Torella e Pietracupa e S. Maria di Castagneto tra Casalciprano e Roccaspromonte (Castropignano). Loro caratteristica comune più importante è quel posizionamento a breve distanza dalla risorsa idrica, rappresentata dal fiume, e dalle vie di comunicazione.

Circa gli aspetti socio-economici della vita di allora, quei documenti fanno, prima di ogni altra cosa, emergere che gli esponenti del Clero, sia secolare che regolare, riescono ancora a contrastare, nello scontro fattosi aspro, l’affermazione di un ‘dominus’ laico. E, poi, che è ancora relativamente bassa, ma rigida, la piramide della società, caratterizzata da un profondo comunitarismo, di un centro insediamentale assai significativo come era allora Limosano, che “è una Terra migliore di quanto sia la città di Trivento, la città della Guardia e la città di Larino (est meliora terra quam sit civitas Treventi et civitas Guardie et civitas Larini)” ed è “la migliore di tutta la provincia eccettuata Bojano (melior totae provinciae excepto boyano)”.

Oltre che per la qualità ed il numero dei componenti il Clero, è ‘insignis’ quella ‘Terra’ (si noti come un tale termine, che sostituisce i più antichi ‘civitas’ e ‘castrum’, sta iniziando ad indicare l’entità insediativa con l’elemento produttivo disponibile), “perché ha molte persone di cultura letterati, ossia professori di logica, docenti, medici, insegnanti di grammatica, avvocati, notai, Giudici ed artisti (quia habet multos homines sapientes literatos videlicet logistas doctoralistas medicos gramaticos peritos in Jure notarios Judices et artistas)...”. Una tale insospettabile diffusione di cultura permette di ipotizzare la presenza di molte istituzioni scolastiche sia nel centro abitato che nelle strutture monastiche. E se gli esponenti del Clero e di quella borghesia intellettuale, sorprendentemente assai diffusa e particolarmente attiva, sono al vertice della scala sociale, sul gradino immediatamente più basso sono i “millecinquecento armati di quella Terra (mille quin genti homines armigeri de terra ipsa)”, i quali, però, non sembra costituiscano una vera e propria classe, bensì sono i lavoratori ‘attivi’ più agiati, che solo all’occorrenza si fanno carico dei compiti militari.

I prodotti (armi, attrezzi di lavoro ed utensileria varia) della fiorente ed assai diffusa ‘industria’ locale del ferro, vengono fabbricati nelle caratteristiche ‘fucine’ ricavate dalla massa tufacea su cui situa l’abitato.

Avendosi superato gli schemi dell’economia curtense, è molto praticato il commercio, se è vero che anche dai centri viciniori coloro che vogliono “comprare o vendere qualcosa si recano a quella Terra e vi trovano quanto cercano (... aliquid emere aut vendere accedunt ad terram ipsam et ibi inveniunt quod querunt)”. La produzione artigianale, oltre che nelle ‘poteche’ concentrate davanti alla vecchia ‘casa dell’Università’ in quella piazza, che per secoli ha significativamente mantenuto il nome di “piazza de le botteghe”, viene venduta anche in forma ambulante dai “callarali (caldararj)”, che arrivano sino a Benevento, a Lanciano ed ai centri della Puglia dauna. E con questi ultimi è fiorente anche il via vai di quei “molti uomini che portano somari carichi di frumento e di orzo (plures homines ducentes somarios oneratos frumento et ordeo)”.

Alla base della piramide la classe più consistente è formata dai “lavoratori della terra (homines laborantes terras)”. Essendo scarso il coltivabile nella loro Terra, che “ha un territorio che da quel lato dove più si estende non si estende per oltre un miglio (habet pro prium territorium quod ab illo latere unde plus extenditur non extenditur ultra unum miliare)”, “gli uomini di Limosano vanno a lavorare le terre di S. Angelo, di Ferrara, di Castelluccio e di Cascapera (homines limosani vadunt ad laborandum terras sancti angeli ferrarii castellucci et casca pere)”

E la mancanza di terra non è il solo problema dei limosanesi di allora. Difatti (ma di chi era la proprietà dei boschi?), siccome nel territorio di quella Terra “non vi è legna sufficiente (non sunt ligna sufficentia)”, essi “vanno per legna al territorio di Cascapera, di S. Angelo, di Ferrara (eunt per lignis ad territorium casca pere sancti angeli et ferrarij)”. E perché si recano, e spesso, “ai boschi di Montagano (ad silvas montisagani)” e, soprattutto, perché “conducono gli animali nei boschi, ossia territorio, di Trivento e di Petrella (ducebant animalia in silvis seù territorio Triventi et petrelle)”, può succedere che, persone ed animali, vengano “catturati (capti)” dai guardiani dei boschi. In simili circostanze sono frequenti gli scontri armati e, dopo, per la liberazione dei prigionieri si rendono necessarie garanzie e fidejussioni.

Poiché, infine, “nessun pozzo o fonte è in quella Terra o nel suo territorio, eccettuate due fonti o una di acqua amara, o salza, esistenti ai piedi del Tufo (nullus putheus aut fons est in terra ipsa aut in territorio suo exceptas duas fontes aut una aque amare seu salite existentes in pede Tufi)”, “gli uomini e le donne sono costretti a recarsi al fiume per acqua (homines et mulieres eunt ad fluvium ad auriendam aquam)”.

A mo’ di conclusione, si può affermare che, pur tra condizioni di una certa drammaticità, la società limosanese di allora è quella di un centro agricolo assai sviluppato e preminente sul territorio. E questa sua presenza non poteva non venire che da assai lontano ed era certamente di ‘lunga durata’.

Perché, a questo punto, la Storia e le storie non vogliono occuparsene? E, soprattutto, perché non è riuscito a mantenere tanta visibilità?

[da Vita Diocesana, quindicinale della diocesi di Campobasso, Anno I, n. 14 del 15 settembre 1998]

domenica 30 agosto 1998

La Democrazia: più problemi che soluzioni?

Una tradizione culturale, tanto radicata quanto ingiusta, porta, se non proprio a demonizzare, quantomeno a colpevolizzare le responsabilità di Ponzio Pilato, il quale, perché nato nell’area tiferno-fagifulana (ambiti territoriali di Limosano e di Montagano) dove la ‘gens Pontia’, così come i Neratii nel Sepinate ed i Cluentii nel Larinese, aveva larga diffusione, era molisano.
Eppure egli, che era (e nonostante fosse) espressione di un potere centralista e verticale, di fronte alla decisione ‘democratica’ del popolo, che, chiamato ad esprimersi sulla sorte dell’Uomo-dio Cristo, gli ha preferito il ladro, malfattore e delinquente, Barabba, altro non fa (in precedenza, però, aveva compiuto tutti i tentativi per salvare l’innocente) che lavarsene le mani per dare libero corso agli effetti di quell’atto della ‘democrazia’.
Un tale atteggiamento illuminato e, per così dire, con risvolti assai innovativi e moderni, evitandogli perlomeno le accuse di ‘totalitarismo’, gli consente di mettere un consistente punto a suo favore.
Analizzare le conseguenze (e le negative sono di gran lunga maggiori e di più delle positive) di quella espressione di sovranità ‘democratica’ porta, tuttavia, ad una riflessione sui grossi e seri interrogativi che pone quella categoria di gestione del potere rappresentata dalla ‘democrazia’, che già la cultura e la ‘sofia’ greca avevano classificata come una delle peggiori forme di governo.
Un primo elemento di caratterizzazione negativa è rappresentato dalla ‘scelta’ del candidato, che, ‘proposto’ e messo nella propria lista da un partito secondo le ‘sue’ (= del partito) esigenze, interessi e logiche di accaparramento dei voti, viene ‘eletto’ non tanto (e non certo) per le capacità amministrative, quanto per il suo peso di clientele e da un elettorato che risulta sempre influenzato o da ‘ordini’ interni dello stesso partito o da umori momentanei che si danno all’opinione pubblica da una informazione certamente pilotata ed asservita. Barabba era bene il (o un) rappresentante di simili logiche devianti, deviatrici e che fanno una ‘democrazia’ più pericolosa di un regime ‘totalitario’. Per tanti versi ricollegabili a tale elemento e di esso non meno negative sono sia l’incapacità della collettività (in essa ogni individuo ricopre funzione, presenza e propositività diverse da quelle degli altri) a determinare il bene comune e sia la predominanza dell’interesse momentaneo e particolare, che, risultando nella psicologia più forte di quello generale, ‘condiziona’ una tornata elettorale. Il reo Barabba viene ‘eletto’ non certo perché offriva più e migliori vantaggi rispetto al Cristo, ma solamente perché in quel momento la psicologia della folla, condizionata da fattori esterni, vuole condannato quest’ultimo.
Pericolosa è anche la connivenza, facile ad aversi in ‘democrazia’ assai più di quanto si possa pensare, tra la funzione politica e quella di controllo (spesso incapace o, per varie ragioni, impedita ad esercitarlo), che frequentemente porta alla commistione dei poteri, la cui autonomia, la cui indipendenza e, soprattutto, la cui capacità di assolvere alla specificità del proprio ruolo, che sono essenziali al buon funzionamento di tale forma di governo, mai si riscontrano attualizzati concretamente. Il controllore (ma chi, ed in virtù di che cosa, lo ha nominato tale?) dell’eventuale azione amministrativa del Barabba di turno risulta, cioè, sempre colluso col controllato. Un discorso a parte meriterebbe la ‘voracità’ della burocrazia, che ben ‘sfrutta’ a proprio favore la omissione del controllo e partecipa di nascosto e, ancor più grave, impunemente alle spartizioni che ne derivano. Basti, al riguardo, pensare alle farse dei concorsi, che mai servono ad indicare il meritevole e il più capace professionalmente, ma solo e sempre il più ‘prono’ e chi, una volta inserito nell’organigramma, sa rimanere ‘fedele’ a determinate esigenze dei ‘gestori’ del potere.
Serie perplessità sorgono, poi, quando si fa l’analisi della composizione qualitativa dei rappresentanti, che, rispetto ai rappresentati, costituiscono una classe (quando non una casta) a se stante. Ad esempio, i disoccupati, così come in generale i poveri, che sono di più dei ricchi e che nelle società postindustriali tenderanno inevitabilmente sempre a crescere nel numero, mai esprimeranno eletti in misura proporzionale alla loro consistenza quantitativa e sociale. La forza economica, vero elemento discriminante, da, anzi, a chi ha il potere ‘democratico’ di rappresentare non solo se stesso, ma anche chi non ha. Chi rappresenta e quali pressioni stanno veramente dietro a quel Barabba che viene scarcerato?
Un problema grosso viene alla ‘democrazia’ anche dal mancato rispetto della ‘volontà’ della minoranza, quando non possiede mezzi e capacità (perché non può o non vuole raggiungere compromessi) per diventare maggioranza. Il suo destino, alla faccia del ‘potere di tutti’, è che per essa le decisioni vengono irrimediabilmente sempre e comunque prese da altri. Tornando all’episodio di Pilato, si ignora se i discepoli ed i seguaci del Cristo, che, dispersi tra la folla, sappiamo essere stati numerosi, abbiano partecipato alla consultazione; ciò nonostante, è facilmente pensabile che la loro ‘volontà’ mai ed in nessun caso sarebbe stata presa in considerazione. Vale a dire, cioè, che il metodo della sopraffazione, di tanto vile di quanto permette ai più di nascondersi dietro alla forza della cosiddetta maggioranza, rappresenta una condizione assai diffusa e coinvolge le minoranze sino ad un ‘democratico’ loro annullamento.
Da ultimo, ma non per importanza, per la democrazia si pone il problema della verifica continua. Ipotizziamo che, appena qualche momento dopo la liberazione di Barabba, le coscienze dei componenti la folla, resesi conto dell’errore di valutazione commesso, ci avessero ripensato. Come potrebbe essere espressa la volontà, in democrazia sempre in divenire, delle ipotetiche infinite maggioranze, ognuna e momento per momento diversa da quella precedente? A chi e come, ma gli interessi degli eletti si oppongono all’essere continuamente messi in discussione, il compito di una verifica permanente? Ed è, poi, corretto fissare tempi e modi di un mandato?Non resta, a questo punto, che constatare come sarebbe culturalmente più giusto e corretto (ed, in fondo, lo pensiamo tutti) colpevolizzare Pilato per essere stato ‘democratico’. Se fosse stato ‘totalitario’ e decisionista, forse…

da Vita Diocesana, quindicinale della diocesi di Campobasso-Bojano, n. 13 del 30 Agosto 1998, pag. 4.

giovedì 30 luglio 1998

Limosano: monasteri, cenobi e badie altomedioevali

L'emergenza insediamentale di maggiore preminenza nell'ambito territoriale della media valle del Biferno è senza alcun dubbio rappresenata, in epoca alto-medioevale, dalla civitas (= centro demico in cui si esercita tanto il potere civile che, da un vescovo, quello religioso) di MUSANE (Limosano). Così essa, che nel tempo ha mantenuto sul territorio il ruolo già esercitato dalla sannita Ti-phernum e successivamente dal municipium romano di Fagifulae, è durante l'altomedioevo contemporaneamente sede sia del gastaldato biffernensis (è in questo momento della storia che si ha la trasformazione dell'etimo Ti-phernum in Bi-fernum) che della diocesi tifernate prima e, poi, musanense.
Intorno e, comunque, nell'area riferibile all'influenza di tale entità, che nel XII secolo arriva a contare sino a 5000 abitanti, esistono diverse strutture monastico-curtensi, che per lunghi secoli hanno svolto, oltre a quelle schiettamente religiose, significative funzioni economiche e sociali. Caratteristica assai importante di quei complessi cenobitico-monastico-badiali, assai più grandi di quanto si riesca ora ad immaginare e frequentemente organizzati nei pressi delle antiche villae a conduzione latifondistica, era che situavano a breve distanza dai tracciati viari e, soprattutto, dalle risorse idriche.
Dominavano sul territorio del ca-Sale di Castelluccio i tre complessi badiali di S. Maria, di S. Benedetto e di S. Pietro posto quest'ultimo alle 'Lame di S. Pietro' appunto. Situati nella Maccla Bona, essi, la cui fondazione va collocata nella seconda metà, se non prima, del VII secolo o, al più tardi, nei primi anni del successivo, erano, tutti dell'ordine benedettino, tra loro collegati e, così come lascia trasparire l'espressione "curtem S. Marie in Sala, Sancti Benedicti Piczoli ibidem" di una Bolla di Papa Anastasio IV (1153-1154), costituivano un polo economico-produttivo notevole e, quel che più conta, di lunga durata. All'inizio di quel periodo di profondi mutamenti politici, ma non solo, che fu il XI secolo e dopo che (marzo 1012) la Chiesa di Sancto Johanne et Paulo de Lemosano era stata offerta (oblata) a Montecassino, anche i tre monasteri passarono nella giurisdizione cassinese. Sono, infatti, del giugno 1019 sia la oblatio Amiconis presbyteri de Sancta Maria in Lumesano loco Maccla bona che la oblatio Richardi presbyteri de Sancto Petro ibidem ed è del marzo 1020 la oblatio Berardi presbyteri et Amiconis presbyterorum de Sancto Benedicto de Lumesano; e tali atti sembra confermino quanto già avvenuto nel settembre del 972. Sull'importanza di S. Pietro, forse il complesso monastico principale, riferiscono le Rationes Decimarum del 1308-1310, quando la "Ecclesia S. Petri de Sala solvit TAR III (la Chiesa di S. Pietro paga 3 tarì)". E, mentre di S. Maria e di S. Benedetto nulla rimane al presente, di S. Pietro è ancora possibile vedere qualche pietra tra quelle scartate, davanti agli occhi chiusi di chi è pagato per sovrintendere, dai contadini della zona nella costruzione delle loro massarie.
A mezza strada tra Limosano e S. Angelo sulla omonima morgia, "loco ubi dicitur Petra majore (ma altrove si ha anche Pesclo majore)", situava il monastero di S. Illuminata. Anche per esso, probabilmente di rito greco così come anche S. Maria di Faifoli almeno sino alla fine del primo millennio, è possibile ipotizzare una data di fondazione assai antica (VI-VII secolo). Pare che, dopo una fase (X-XI secolo) in cui i costumi dei monaci avevano subito un rilassamento, vi venne introdotta la rigida osservanza della riforma di S. Brunone. Qualche anno prima del 1084, il monaco Alferio, che in tale anno viene ricompensato con la promozione a vescovo di Trivento, fraudolentemente distrugge tutti i documenti (cartas) di quel complesso monastico con l'evidente obiettivo di sottrarlo al potere di Benevento. Tanto che nel giugno del 1109 dal dominus di Limosano che in tale anno ha certamente anche un suo vescovo, da quel Tristaino della casata dei de Molisio, che, perchè mirava a rendersi autonomo da Benevento, si serve della collaborazione del vescovo di Trivento, venne effettivamente donato a Montecassino, che ne incide il nome nelle porte di bronzo del monastero (Pannello XII - Battente II). L'Abbate cassinese Giovanni Aragonio la concesse in commenda a Giovanni Fiorillo da Mercogliano prima (novembre 1471) e, dopo (agosto 1479), a Barnaba Brancia da Sorrento. Cadente più che decadente, nei primi anni del XVII secolo vi dimorava ancora un certo monacus Ercules.
Nelle immediate vicinanze di una, quella di mezzo o delli Patrisi, delle tre vie, che dall'abitato di Limosano portavano al Bosco Fiorano, e precisamente alla contrada castagna situava il complesso badiale di S. Silvestro, anch'esso posto sopra una morgia (supra unum montem lapideum... dictum Morgia di S. Silvestro). Sulla data della sua fondazione, che non pochi elementi, come, ad esempio, la vicinorietà ai siti di Ferrara e di Cascapera, fanno ritenere antichissima (VI-VII secolo), sono possibili solo ipotesi. Il monastero, dopo un iniziale periodo di rito greco, passò per costituirne un avamposto strategico nel territorio del medio Biferno alla diretta dipendenza di S. Sofia di Benevento; tanto che nel Catasto Onciario (1743) ancora si legge che "il suolo dell'Abbadia di S. Silvestro di Benevento" si trova "nel suolo di S. Sofia di Benevento". Anche tale complesso monastico, il cui beneficio semplice, esistente sino ai primi anni del '900, era appetito ancora durante il XVIII secolo (anche se nel 1778 poco o nulla rimaneva sopra la Morgia, ove si dice esser stata la chiesa diruta dentro li Territorij di S. Silvestro), dovette avere una discreta rilevanza se, per le decime del 1308-1310, il "Prior S. Silvestri de Limosano solvit Tar III (il Priore di S. Silvestro di Limosano paga 3 tarì)". La Chiesa già nel 1712 era ridotto "in un Mucchio di pietre per essere demolita d'ordine dell'E.mo Sig.r Card.l Arciv.o Orsini in S. Visita dell'anno 1693".
Il fatto che di tali complessi monasteriali (ma il territorio limosanese vide in epoca medioevale anche la presenza del Monastero di S. Martino, sito forse a Pesco Martino, e della Chiesa di S. Croce nella omonima contrada al confine con S. Angelo), al presente poco o nulla rimane non autorizza i burocrati del palazzo a cancellarli e chi fa storia ad ignorarne il significato.

da "Vita Diocesana", quindicinale della diocesi di Campobasso, Anno I, n.12 del 30 luglio 1998.

martedì 30 giugno 1998

La diocesi scomparsa di Limosano: era più antica di quanto riferiscono gli storici?

Che nel territorio dell'attuale Molise i municipia imposti dalla romanizzazione siano stati tutti derivati da preesistenti strutture insediamentali è cosa ormai definitivamente accertata. Come definitivamente accertato è che essi coll'affermarsi del Cristianesimo, che, mosso da motivazioni analoghe, per radicarsi seguì una 'ratio historica' identica a quella di Roma, furono fatti tutti sede di diocesi (circoscrizione amministrativa romana assoggettata alla giurisdizione ecclesiastica di un vescovo) sin dai primi secoli d. C.
Ora, atteso che Fagifulae, di cui però ecclesiasticamente non resta traccia, certamente fu nell'ambito territoriale del medio Biferno la sede del municipium romano, quale diocesi cristiana è da riferire a tale area?
I rinvenimenti, assai frequenti, di reperti (iscrizioni, statuette, monete,...), una ragionata ricognizione della eziologia etimologica ed oggettive motivazioni storiche portano a due siti di antichi insediamenti, Cascapera e Ferrara, non molto distanti l'uno dall'altro ed entrambi posti al confine tra l'agro di Limosano e quello di Lucito, che potrebbero essere identificati con la stazione viaria 'ad PYRum' della Tavola peutingeriana e con il touto sannitico di Ti-pher-num, costretto poi a diventare, mantenendone il nome, un villaggio romano dirimpettaio, nella valle, di quella emergente Fagifulae favorita dal potere.
E, siccome il Cristianesimo primitivo per ragioni di opportunità si organizzava in luoghi marginali, potrebbe costituire cosa più che probabile il fatto che nella media valle del Biferno i primi presbiteri fissassero la diocesi proprio a Tifernum, in quanto decentrata rispetto a Fagifulae, che pure vi esercitava la giurisdizione civile.
Del resto, una vecchia tradizione storiografica già indicava il sito di Tifernum, località in cui lo storico Tito Livio colloca due scontri tra Sanniti e Romani, in agro di Limosano.
Ed il Gasdia, che la conosceva bene, poteva affermare: "Il Lanzoni,..., identifica Tifernum con Città di Castello. Ma se questa città è la nostra sannita, dirò che essa ebbe due vescovi...".
La sede a Limosano, a partire dal secolo VIII, della diocesi Musanense di S. Maria, più che semplice fatto episodico, rappresenta in questo modo un evidente segno di continuità (ben nota è la tendenza della Chiesa a 'conservare') con la diocesi di Tifernum, della quale sono noti i seguenti titolari:
???: S. Florido (o Floridio), vescovo di Tifernum;
465: Eutodius (o Eubodius), 'episcopus tifernas';
499: Marius, episcopus ecclesiae tifernatium;
501 e 502: Innocentius, episcopus tifernatium.
Tornando, infine, alla località di Cascapera, una ulteriore conferma a quanto abbiamo sin qui detto sembrerebbe venire dal fatto che essa confinava con Rocca del Vescovo, modesto corpo feudale ed antico villaggio poco conosciuto nell'agro di Trivento, il cui nome evoca e ricorda quantomeno una residenza vescovile.
Di quale vescovo se non del titolare della cattedra di Tifernum?

da "Vita Diocesana", Anno I, n. 10 del 30 giugno 1998.

lunedì 15 giugno 1998

Papa Leone IX a Limosano? Così vuole una recente scoperta d'archivio

L'intero primo millennio ed alcuni secoli del secondo vedono nel territorio del medio Biferno la presenza ininterrotta di una 'grossa' emergenza insediamentale, tanto interessante quanto poco conosciuta, che esercita la propria preminenza sull'intera area di riferimento lungo un percorso storico-etimologico che, partendo dalla sannita Ti-phernum e passando per la romana Fagifulae, si conclude a, o in, Musane, l'odierna Limosano.
Della scomparsa diocesi di quel centro abitato, che da 'ti-phernate' nel corso dei secoli diventa 'Musanense di S. Maria', racconteremo con altro scritto le vicissitudini e la lunga vita.
Ora, per una migliore comprensione di alcuni accadimenti storici, molisani e non solo, si rende necessario riferire dell'insediamento abitativo di 'li=Musani' (Limosano), strategicamente (per il controllo sia della risorsa idrica rappresentata dal fiume che delle vie di traffico) assai importante e che i manoscritti della Collectoria t. 61 dell'Archivio Vaticano dicono, come riferimento temporale siamo ai secoli XII-XIV, essere "terra così grande per ricchezze e nobiltà che nell'intera provincia beneventana nessun'altra città, eccettuata Bojano, poteva reggere il confronto". Era quella di Limosano, che contava allora sino a cinquemila abitanti, "terra da reputarsi insigne in quanto ha molti letterati, specialmente cultori di logica, dottori, medici, grammatici, avvocati, notai ed artisti".
Proprio ai margini del territorio riferibile ad una tale realtà insediativa, "in loco Sale iuxta Bifernum fluvium (in località Sale nei pressi del fiume Biferno)", Papa Leone IX, "contra Apulie fines pergens (dirigendosi verso i confini della Puglia)" dove, a Civitate, il 17 seguente doveva scontrarsi con l'esercito normanno di Roberto il Giuscardo, si accampava il 10 giugno del 1053 per tenervi un placito, nel quale il Pontefice concesse all'Abate Liutfrido di S. Vincenzo al Volturno un privilegio sul Monastero di S. Maria in Castagneto, situato "prope terram Casalium Cipriano" e che nelle 'decime' del 1309 pagava ancora la ragguardevole somma di "TAR XVIII".
Ma perché, e dove, il locus Sale, dagli storici ritenuto 'sconosciuto' o posizionato altrove, deve essere collocato in agro di Limosano? Perché i confini del corpo feudale della Sala, esteso per "tomuli mille, e cinquecento incirca", e coincidente con quel locus Sale, vengono descritti in un "istrumento stipulato à otto di luglio mille cinquecento novantasei" nel modo seguente:
"Li Territorij detta la Sala è terminata dell'infra(de)tto modo: Incomincia alla strada publica dello Fiume nominato Biferno, quale strada se nomina lo passo della Covatta, e se ne vene sempre per la strada publica suso in sino alla strada che se piglia per andare alla Fonte della Valla, seguitando per lo Frattale traverso, che esce sotto detta Fonte, e se ne vene sempre strada in sino à Fonte Faucione alla Confina, che è fra S. Angiolo, e Limosano, e del resto confina da ogni banda con lo Casale di Castelluccio e Territorij di Fossacieca (Fossalto)".
Se del Casale di Castelluccio (o, anche, di Castelluccio di Limosano) riferiremo in altro scritto, non possiamo ora non dire che nel territorio ad esso riferibile situavano ben tre grossi insediamenti monasteriali (S. Maria, S. Benedetto e S. Pietro) dell'Ordine benedettino, tutti dipendenti da Montecassino.
Testimonianza lasciata a ricordo dell'evento era la "Cappella (casalenum ecclesie) di San Leone, posta nella contrada che il popolo chiama 'La piana Santo Leo' vicino al fiume Biferno (iuxta flumen Bifernj) ed i confini della Terra di Limosano e del feudo del Casale di Castelluccio", esistente ancora durante il XVI secolo. Per curiosità va detto che 'La piana (di) Santo Leo(ne)', in origne chiaramente indicativa del fatto, nella 'parlata' limosanese si trasformava in 'la chiana Santa Lena', per diventare sulle carte geografiche la 'Piana (di) S. Elena'. Ciò, con buona pace della Storia.

da "Vita Diocesana", quindicinale della diocesi di Campobasso, Anno I, n. 9 del 15 giugno 1998.