sabato 19 settembre 1998

Limosano: società e geografia dopo l’anno mille

Mentre la regola benedettina (e, più di essa, abati e monaci), col trascorrere dei secoli, va perdendo quella parte di connotazione spirituale, rappresentata dalla preghiera (ora), per dedicare alla produzione ed alle attività economiche (labora) uno spazio sempre maggiore della vita nelle grandi strutture monastico-curtensi, si assiste alla riscoperta (ma non, o non ancora, all’affermazione) di una ‘socialità possibile’, che, favorita da una fase di esplosione demografica, diventa la causa motrice dei profondi cambiamenti, che sémpre di più assumono, a partire al più tardi dal primo secolo dopo il ‘mille’, il carattere della irreversibilità.

La lettura di alcuni documenti della Collectoria 61 (Benevent Civit.is & Ducatus Varia - 1132/1312) nell’Archivio Vaticano, riguardanti situazioni, fatti ed accadimenti nell’area limosanese, offre lo spunto e, soprattutto, gli elementi per una ricostruzione, con buona approssimazione al vero, di alcuni aspetti della geografia e, più importanti, della vita socio-economica di allora.

Cominciamo dagli aspetti geografico-fisici. Scomparse del tutto le aree paludose lungo il fiume, a dominare sul paesaggio restano, ancora discretamente diffuse, la macchia cespugliosa ed il bosco, che, nell’agro di Limosano, sarebbero da posizionare nelle attali contrade: Cese, Selva, Selvitella, Foresta, Macchie e Bosco Fiorano. Tali ampie zone di incolto si intervallano con le parti coltivate, che, estese intorno a piccoli ‘Casali’ (Covatta, Castelluccio di Limosano, Cascapera, Ferrara e la stessa S. Angelo Limosano) oppure a chiese rurali (S. Leonardo, S. Giusta, S. Giovanni della Serra, S. Vittorino e SS. Giovanni Battista ed Evangelista) gestite da quei monaci che, se talvolta e per scelta conducono vita eremitica, assai spesso sono veri e propri amministratori di patrimoni monastici non altrimenti controllabili, rientrano, comunque e sempre, nel disponibile delle grandi strutture monastico-curtensi. A quelle di esse, che in altro scritto abbiamo già visto essere particolarmente numerose nel territorio direttamente controllato da Limosano (S. Maria, S. Benedetto e S. Pietro nella Maccia bona, S. Illuminata a Pescio majore e S. Silvestro), vanno aggiunte, tutte alla sinistra del Biferno: S. Angelo in Altissimis a Colle S. Angelo tra Lucito e Civitacampomarano, S. Alessandro a Colle S. Alessandro tra Torella e Pietracupa e S. Maria di Castagneto tra Casalciprano e Roccaspromonte (Castropignano). Loro caratteristica comune più importante è quel posizionamento a breve distanza dalla risorsa idrica, rappresentata dal fiume, e dalle vie di comunicazione.

Circa gli aspetti socio-economici della vita di allora, quei documenti fanno, prima di ogni altra cosa, emergere che gli esponenti del Clero, sia secolare che regolare, riescono ancora a contrastare, nello scontro fattosi aspro, l’affermazione di un ‘dominus’ laico. E, poi, che è ancora relativamente bassa, ma rigida, la piramide della società, caratterizzata da un profondo comunitarismo, di un centro insediamentale assai significativo come era allora Limosano, che “è una Terra migliore di quanto sia la città di Trivento, la città della Guardia e la città di Larino (est meliora terra quam sit civitas Treventi et civitas Guardie et civitas Larini)” ed è “la migliore di tutta la provincia eccettuata Bojano (melior totae provinciae excepto boyano)”.

Oltre che per la qualità ed il numero dei componenti il Clero, è ‘insignis’ quella ‘Terra’ (si noti come un tale termine, che sostituisce i più antichi ‘civitas’ e ‘castrum’, sta iniziando ad indicare l’entità insediativa con l’elemento produttivo disponibile), “perché ha molte persone di cultura letterati, ossia professori di logica, docenti, medici, insegnanti di grammatica, avvocati, notai, Giudici ed artisti (quia habet multos homines sapientes literatos videlicet logistas doctoralistas medicos gramaticos peritos in Jure notarios Judices et artistas)...”. Una tale insospettabile diffusione di cultura permette di ipotizzare la presenza di molte istituzioni scolastiche sia nel centro abitato che nelle strutture monastiche. E se gli esponenti del Clero e di quella borghesia intellettuale, sorprendentemente assai diffusa e particolarmente attiva, sono al vertice della scala sociale, sul gradino immediatamente più basso sono i “millecinquecento armati di quella Terra (mille quin genti homines armigeri de terra ipsa)”, i quali, però, non sembra costituiscano una vera e propria classe, bensì sono i lavoratori ‘attivi’ più agiati, che solo all’occorrenza si fanno carico dei compiti militari.

I prodotti (armi, attrezzi di lavoro ed utensileria varia) della fiorente ed assai diffusa ‘industria’ locale del ferro, vengono fabbricati nelle caratteristiche ‘fucine’ ricavate dalla massa tufacea su cui situa l’abitato.

Avendosi superato gli schemi dell’economia curtense, è molto praticato il commercio, se è vero che anche dai centri viciniori coloro che vogliono “comprare o vendere qualcosa si recano a quella Terra e vi trovano quanto cercano (... aliquid emere aut vendere accedunt ad terram ipsam et ibi inveniunt quod querunt)”. La produzione artigianale, oltre che nelle ‘poteche’ concentrate davanti alla vecchia ‘casa dell’Università’ in quella piazza, che per secoli ha significativamente mantenuto il nome di “piazza de le botteghe”, viene venduta anche in forma ambulante dai “callarali (caldararj)”, che arrivano sino a Benevento, a Lanciano ed ai centri della Puglia dauna. E con questi ultimi è fiorente anche il via vai di quei “molti uomini che portano somari carichi di frumento e di orzo (plures homines ducentes somarios oneratos frumento et ordeo)”.

Alla base della piramide la classe più consistente è formata dai “lavoratori della terra (homines laborantes terras)”. Essendo scarso il coltivabile nella loro Terra, che “ha un territorio che da quel lato dove più si estende non si estende per oltre un miglio (habet pro prium territorium quod ab illo latere unde plus extenditur non extenditur ultra unum miliare)”, “gli uomini di Limosano vanno a lavorare le terre di S. Angelo, di Ferrara, di Castelluccio e di Cascapera (homines limosani vadunt ad laborandum terras sancti angeli ferrarii castellucci et casca pere)”

E la mancanza di terra non è il solo problema dei limosanesi di allora. Difatti (ma di chi era la proprietà dei boschi?), siccome nel territorio di quella Terra “non vi è legna sufficiente (non sunt ligna sufficentia)”, essi “vanno per legna al territorio di Cascapera, di S. Angelo, di Ferrara (eunt per lignis ad territorium casca pere sancti angeli et ferrarij)”. E perché si recano, e spesso, “ai boschi di Montagano (ad silvas montisagani)” e, soprattutto, perché “conducono gli animali nei boschi, ossia territorio, di Trivento e di Petrella (ducebant animalia in silvis seù territorio Triventi et petrelle)”, può succedere che, persone ed animali, vengano “catturati (capti)” dai guardiani dei boschi. In simili circostanze sono frequenti gli scontri armati e, dopo, per la liberazione dei prigionieri si rendono necessarie garanzie e fidejussioni.

Poiché, infine, “nessun pozzo o fonte è in quella Terra o nel suo territorio, eccettuate due fonti o una di acqua amara, o salza, esistenti ai piedi del Tufo (nullus putheus aut fons est in terra ipsa aut in territorio suo exceptas duas fontes aut una aque amare seu salite existentes in pede Tufi)”, “gli uomini e le donne sono costretti a recarsi al fiume per acqua (homines et mulieres eunt ad fluvium ad auriendam aquam)”.

A mo’ di conclusione, si può affermare che, pur tra condizioni di una certa drammaticità, la società limosanese di allora è quella di un centro agricolo assai sviluppato e preminente sul territorio. E questa sua presenza non poteva non venire che da assai lontano ed era certamente di ‘lunga durata’.

Perché, a questo punto, la Storia e le storie non vogliono occuparsene? E, soprattutto, perché non è riuscito a mantenere tanta visibilità?

[da Vita Diocesana, quindicinale della diocesi di Campobasso, Anno I, n. 14 del 15 settembre 1998]