sabato 10 novembre 2001

I ‘misteri’ su Celestino V

E’ un fatto che del secolo XIII, quello, per intendersi, di Celestino V e che, tutt’intero, rappresenta la cerniera di raccordo o, a seconda del punto di vista, di frattura, ancora terribilmente aperta, tra la ‘cultura’ antica del medioevo alto e quelle ‘moderne’ dell’era mediana, molti sono i punti oscuri che ne impediscono una interpretazione, se non esaustiva, quantomeno corretta. Ad onor del vero, una certa mancanza di elementi per l’indagine del ‘continuum’ storico, a motivo delle grandi ‘cancellazioni’ (che la ricerca sembra non tener in adeguata considerazione) di quanto (ma le successive non furono da meno) ai secoli bui (dal VI al X), crea allo studioso di cose storiche seri problemi già per i periodi che lo precedettero.
Eppure quel secolo, nonostante le difficoltà grandi per una sua ‘lettura’, fu straordinario. Lo fu per la storia civile; basti pensare a Federico II con gli scontri tra ghibellini e guelfi ed all’arrivo, a Napoli, degli angioini (1268) con la conseguente, e più radicale di quanto si possa solo pensare, angioinizzazione. Lo fu per la storia economica; basti pensare agli influssi che ebbero, con i Templari, l’accumulo e l’amministrazione della massa monetaria nelle mani delle ‘caste’. Lo fu per la storia religiosa; e basti pensare: alla nascita (ma non allo sviluppo) degli ordini ‘mendicanti’ e, più propriamente, del francescanesimo; alle lotte tra gli Spirituali, spesso tacciati di eresie, ma con seguiti grandi, e la ‘ecclesia carnalis’ arroccata nei palazzi e nelle chiese; e, da ultimo (ma le schematizzazioni non favoriscono la verità), basti pensare alla figura, tanto studiata quanto, per tantissimi versi, ancora oscura del molisano Pietro “de Marone”, che diventerà Papa col nome di Celestino V.
Prima di ogni cosa, relativamente alla controversa (quanto sterile) ‘questione’ sul ‘locus’ che gli dette i natali va detto che, mentre le fonti ed i manoscritti più antichi, così come annota il criticamente severo Daniele Papebrochio, lo dicono nato nel ‘castello’ di S. Angelo, è solo nei secoli, dopo le ‘controriforme’ del Concilio di Trento, dal XVI al XVII che viene ad emergere “l’opinione volgare”, che, formatasi tra il 1595, anno del Lignum Vitae del Wion, ed il 1630, anno della Vita et Miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino Papa V del Marini lo vuole di Isernia. Di una tale impostazione (o, che è meglio, soluzione al problema), nella correttezza dei termini del problema storico, ne era consapevole già lo stesso Marini (1630), che scrive: “La patria del Santo secondo l’opinione volgare fu Esernia… Altri scrittori nondimeno hanno lasciata memoria, che il luogo dove nacque Pietro, fu un Castello chiamato S. Angelo: Così hanno alcuni Manoscritti antichissimi (nota: e ne indica uno che “ora vien conservato dal Molto Reverendo Padre Abbate Don Francesco Aielli”, che lo aveva aiutato a raccogliere il materiale documentario, ed altri “duoi manoscritti antichissimi, nei quali è descritta la vita del Santo assai minutamente uno dei quali in carta pergamena fu trovato da me gli anni passati in occasione di visita nell’Archivio del nostro Monastero di San Nicolò dei Celestini di Bergamo, e questo fu scritto da un discepolo del Santo…; l’altro… fu scritto da altri discepoli separatamente, secondo che avevano visto”), la prima parte dei quali si professa nel prologo, che fu lasciata scritta di propria mano da un Monaco di Santa vita discepolo del Santo e si ha che fu Beato Roberto de Sale”.
Quanto a questa località, non è essa la stessa di quel “loco Sale iuxta Bifernum fluvium” (dove Leone IX il 10 Giugno del 1053, una settimana prima dello scontro di Civitate, si ferma “cum contra Apuliae fines pergens”) del Chronicon Volturnense, che trova la sua precisa collocazione geografica (e la cosa per Celestino originario di S. Angelo assume una sua non trascurabile importanza) in quel corpo feudale detto “la Sala”, che era “terminato dell’infratto modo: Incomincia alla strada publica dello Fiume Biferno, quale strada se nomina lo passo della Covatta,…, e del resto confina da ogni banda con lo Casale di Castelluccio e Territorij di Fossacieca”? Occorre tener pure presente che (lo proverebbe il fatto che la angioinizzazione la priverà della fiorentissima industria del ferro) la ‘ghibellina’ Limosano (è per questo che Pietro “de Marone” si sposterà in Abruzzo), di cui S. Angelo è ‘castrum (= castello), conta in questa fase storica circa 4000 abitanti e, seconda ‘civitas’, dopo Bojano, dell’attuale Molise è al centro di grandi manovre (e di grandi incontri, anche segreti) tra i poteri allora presenti nello scacchiere degli interessi.
Ma quando, come e perché di quella “opinione volgare”? Detto in qualche modo del quando (ma, per approfondimenti, si potrà vedere il mio Limosano: Questioni di storia, in stampa), è necessario aggiungere che essa emerge per ridare una credibilità nuova (ed anche di facciata, con una ‘rifundatio’ dell’Ordine e con una ‘reinscriptio’ della vita del suo Santo fondatore) alla “Religione dei Celestini”, nei cui monasteri la vita religiosa era rilassata e dissoluta (per Limosano abbiamo trovato tracce di ‘carcerazioni’ di Priori-abbati). Ed il quadro risulterà ancor più completo (e credibile), se solo pensiamo alla contemporaneità, a Napoli, del pietismo, fenomeno che rappresenta una notevole chiave di lettura per il ‘600, di ‘suor’ Giulia de Marco, di Sepino, e del di lei ‘compagno’ Padre Aniello Arcieri.
Eppure quella congregazione di ‘monachi’ sin dal principio si era affermata, in quel mondo di trasformazioni profonde e radicali che farà della ‘civitas’ non più il centro militare ed amministrativo, ma il focolaio economico, politico e culturale, nella contraddizione più esasperata. Tanto che, nonostante fosse nata nello spirito, puro ed evangelico, del primo francescanesimo ‘spirituale’ (e ‘ghibellino’, se è vero che Frate Elia, compagno di S. Francesco e ministro generale dell’Ordine è costretto a dimettersi nel 1239 perché amico di Federico II), le si vide dalla gerarchia assegnata (ed il fatto non poté non essere vissuto che come una mortificazione) l’osservanza benedettina ‘classica’. E, nonostante il tentativo di ingabbiarla con tale ‘regola’, mantenne l’ispirazione spirituale più pura almeno sino ai primi anni della ‘angioinizzazione’, quando nel 1276 inizia ad espandersi, ed a macchia d’olio, anche nell’attuale Molise, molto ‘ghibellino’ rispetto al più ‘guelfo’ Abruzzo interno. Lo dimostra il fatto che, mentre l’Ordine dei Minori diventava sempre di più espressione dei frati ‘communi’ (così che, dopo la disposizione in tal senso del capitolo generale del 1260, viene imposta, con l’ordine della distruzione di tutte le sue biografie anteriori, quella scritta da S. Bonaventura come sola vita canonica e, per così dire, ufficiale di S. Francesco), la congregazione messa insieme da Pietro “de Marone” più avanti nel tempo (1294, proprio da Papa Celestino V) accoglierà, anche se come espressione autonoma, il movimento, che in seguito sfocerà nell’eresia (saranno perseguitati ed inquisiti nei primi anni del ‘300 anche nei territori molisani di Frosolone, di Trivento e di Roccamandolfi), dei “pauperes eremite domini Celestini (= poveri eremiti del signor Celestino)” o dei “fraticelli” di Pietro da Fossombrone (Frate Liberato) e di Angelo Clareno.
Per chi voglia indagare (o approfondire le contraddizioni?) sull’originario nome, che ne denota la genuina ispirazione ‘francescana’, assegnato da Pietro alla sua congregazione di ‘monachi’ (parola questa, che, tuttavia sa più di solitudine e di eremitico rispetto al francescano ‘frati’), ritengo assai utile il seguente brano del “Synodicon Dioecesanum Beneventanae Ecclesiae”(1723), dove, a pag. 72, nella traduzione italiana, la più fedele possibile, si legge: “… (c) Risulta evidentissimo nei nostri Annali (nota: gli Annales Beneventani) che nell’anno del Signore 1276 Romano de Capoferri consacrò S. Pietro de Marone (poi Pontefice massimo Celestino V) Abate di S. Maria de Faifoli di questa Diocesi da lui stesso designato. In tale funzione, come riferisce il nostro Ciacconio (d) istituì una Nuova Congregazione di Monaci Eremiti, col titolo di S. Damiano e sotto la regola di S. Benedetto, che dopo viene chiamata dei Celestini.”. Il brano, sia detto solo per compiutezza di notizia, prosegue riferendo della larga diffusione, in quel preciso periodo e nelle nostre zone (la cosa fa ipotizzare intorno a tale data anche la fondazione dell’eremo di S. Pietro nell’agro di Limosano), della ‘nova’ congregazione.
Ma se quest’ultima, appunto, è ‘nova’ nel 1276 (o tale era solo per la ‘provincia’ beneventana), in precedenza Pietro “de Marone” cosa aveva fondato? E cosa era andato a farsi approvare a Lione, dove giunse sicuramente a Concilio terminato? E’ necessario esporre i fatti. Nel 1274 Gregorio X indisse il secondo concilio lionese, avente per scopo, oltre che la preparazione di una nuova crociata, la riunione della chiesa latina con la greca. Nel frattempo si era riaccesa negli ambienti della chiesa l’ostilità contro la moltiplicazione degli ordini ed, in particolare, degli ordini ‘mendicanti’. L’argomento venne affrontato dal concilio, che durò dal 7 maggio sino alla fine del luglio 1274, e definito nel canone “Religionum diversitatem”, col quale si riprendeva, ampliandola, la disposizione del IV concilio Lateranense del 1215 sull’argomento. Temendo imminenti difficoltà, Pietro, dopo aver fatto ‘pubblicare’ la prima conferma (ma fatta in sede locale) della sua comunità, nel novembre del 1274 (il concilio , e qui sta il ‘mistero’, era già chiuso) si mise in cammino con due suoi compagni per Lione. “… Giunse in quella città ove prese alloggio in una casa appartenuta allora a’ Templari e che di presente è un monastero del suo ordine (Racine B., Storia ecclesiastica, 1781, VIII, p. 116)”.
E’ vero che da Gregorio X ottenne una bolla contenente la conferma, nella regola di S. Benedetto, del monastero di S. Spirito di Maiella e dei suoi possedimenti; ma la ottenne per l’intervento dei Templari? Sembrerebbe proprio di sì (e su tale rapporto andrebbe ulteriormente indagato). Una, seppur indiretta, conferma viene dal fatto che S. Maria di Collemaggio, chiesa ‘celestiniana’ per eccellenza, viene, di lì a qualche anno, costruita proprio dai Templari; e con il finanziamento dei Templari. I quali, detto per inciso, avevano una cospicua proprietà a Cascapera, contrada (e Casale) limosanese al confine con S. Angelo, dove insisteva (e lo è stato nella ‘lunga durata’) uno snodo di strade assai importante.
Da ultimo (ed alla luce delle cose dette le domande prendono nuovo significato), chi decise la ‘rinuncia’ di Celestino V? Fu essa libera scelta? E, se, come sembra assai probabile, fu egli ‘soppresso’, chi poteva avere interesse alla eliminazione fisica di un personaggio, che, per quanto scomodo, era tanto avanti negli anni e del quale bastava attendere la morte ‘naturale’? Vi fu estraneo lo scontro tra le eterodossie degli Spirituali e le ortodossie dei ‘fratres communi’? E, poi, vi furono estranee le connivenze con i Templari, che stavano, proprio in quel momento storico, cadendo in disgrazia?
Misteri, ancora misteri, sempre più misteri.

da "Provincia Notizie", organo di stampa della Provincia di Campobasso, [s.n.], 2001.